La Dott.ssa Paola Arangio, psicologa e psicoterapeuta a Roma è stata intervistata dalla trasmissione Eccellenze Italiane in onda su Odeon tv sul tema delle problematiche psicologiche legate allo Smart Working.
La dottoressa ha spiegato in trasmissione come mai un modello organizzativo come lo smart working, che dovrebbe favorire il benessere psicofisico del lavoratore attraverso una maggiore flessibilità e indipendenza, possa rivelarsi, in alcuni casi, un’esperienza negativa e stressante.
Ci riferiamo, in particolare, allo smart working ai tempi del covid cioè quando aldisagio per il cambiamento lavorativo si aggiungono lo stress e l’ansia di vivere durante una pandemia, alla paura per la propria vita e per quella dei propri cari e all’ incertezza sul futuro.
L’adozione dello smart working nel 2020 non deriva da una scelta libera, consapevole e condivisa, precisa la dottoressa, ma è il risultato di un’improvvisa imposizione spesso priva di un’adeguata formazione e quindi può comportare ansia e stress nei lavoratori. Tra l’altro non siamo tutti uguali, quindi, quello che può essere un vantaggio per alcuni può rivelarsi un disagio per altri. Infatti, solo chi riuscirà ad organizzarsi avrà più tempo libero da dedicare a se stesso o alla famiglia, trarrà giovamento a lavorare in un ambiente confortevole, quale è la propria abitazione, inoltre potrà evitare e sarà contento di evitare il problema degli spostamenti casa-lavoro che, soprattutto nelle grandi città, possono essere molto stressanti.
In alcuni casi, sottolinea la dottoressa, i riflessi negativi dello smart working possono essere molteplici per chi non riesce a gestire i nuovi equilibri tra lavoro, famiglia e tempo libero. La mancanza di un confine netto tra lavoro e casa può portare le persone a lavorare più a lungo dell’orario previsto e non necessariamente a produrre di più. Può diventare difficile staccare la spina e si rischia di essere sempre reperibili. Tra l’altro ad alcuni lavoratori potrebbero mancare i tempi di passaggio che prima erano garantiti dagli spostamenti tra casa e lavoro e che consentivano di passare da un’attività all’altra con gradualità.
C’è poi il rischio di venir visti come lavoratori di serie B dai capi e dai colleghi rimasti a lavorare in sede, tanto che si è portati a lavorare di più per l'ansia di non essere abbastanza efficienti e per il desiderio di mostrarsi capaci e produttivi come in ufficio.
A questo si aggiunge la difficoltà nelle comunicazioni che possono portare a problemi nella pianificazione delle attività.
Lavorare da casa, aggiunge la dottoressa, per alcuni può essere complicato perchèsignifica condividere spazi, magari ristretti, con il resto della famiglia e le frequenti interruzioni non favoriscono la concentrazione.
La ricaduta sulla donna è sicuramente più pesante anche in termini psicologici perché la donna a casa ha difficoltà a stabilire un confine netto tra il lavoro domestico e quello extradomestico che rischiano così di fondersi.
Chi, invece, vive da solo, può soffrire maggiormente della perdita dell’aspetto sociale e relazionale del lavoro e sentirsi isolato senza la possibilità di condivisione.
Per quanto riguarda poi il livello di prestazione lavorativa, è fondamentale il senso di responsabilità personale e la capacità organizzativa infatti chi riuscirà a gestire meglio il proprio tempo sarà più libero; inoltre, non essendoci un controllo esterno, il lavoratore avrà una motivazione esclusivamente interna che, se dovesse esaurirsi, porterebbe ad un abbassamento della prestazione lavorativa.
Quindi lo smart working è un’opportunità ma può rappresentare anche un rischio per il benessere psicofisico del lavoratore.
Ci sono interessanti ricerche su questo tema. La dottoressa Arangio ha citato quella di LinkedIn su un campione di oltre 2.000 lavoratori, che si propone di capire quale sia l'impatto dello smart working sulla salute. Il 46% degli intervistati dichiara di sentirsi più ansioso e stressato per il proprio lavoro rispetto a prima mentre il 48% lavoraalmeno un'ora in più al giorno. A questo si aggiunge il desiderio di dimostrare che si merita il proprio lavoro: il 16% si sente preoccupato che il datore di lavoro lo licenzi, mentre il 19% si sente ansioso per il futuro dell’azienda.
Secondo la dottoressa Arangio, esistono vari livelli di disagio dovuti allo smart working che possono portare nei casi più gravi alla cosiddetta sindrome da burnout.
Il burnout è una condizione di sofferenza psicologica, frutto di stress cronico e persistente, si può tradurre con “bruciare in fretta”, esaurirsi, quando si percepisce il carico di lavoro sproporzionato rispetto alle proprie capacità. Teorizzato inizialmente come un rischio solo per gli operatori sanitari e assistenziali, il burnout può essere un pericolo per ogni lavoratore.
I segnali di un possibile burnout possono presentarsi con sintomi fisici e psicosomatici, come emicranie, colon irritabile, insonnia, tachicardia e sintomi psicologici, come stati d’ansia, attacchi di panico, episodi depressivi.
È fondamentale, quindi, creare una nuova routine e degli orari abituali come se ci si dovesse recare presso il proprio luogo di lavoro, non alzarsi più tardi del solito e curare il proprio aspetto.
Per non perdere la dimensione sociale e relazionale del lavoro, conclude la dottoressa, è importante rimanere in contatto con i colleghi, anche più volte al giorno, per non sentirsi isolati e anche per favorire i feedback utili per mantenere attiva la motivazione.
Comunque, se non si dovesse riuscire a gestire questa nuova modalità di lavoro e ci fosse un forte disagio, sarebbe il caso di farsi aiutare da un professionista per ristabilire una situazione di equilibrio e serenità psichica.
24/01/2021
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