Il 2020-2021 si sta trasformando in un biennio nero per l’industria globale dell’auto. Dapprima la crisi del Covid e il blocco sostanziale del mercato globale del settore hanno paralizzato il business delle case produttrici, poi dopo lo shock dell’inizio della pandemia la ripresa del settore è stata disaggregata tra le aree del mondo, come la Cina, a più rapido tasso di ripresa e quelle, come l’Europa, maggiormente stagnanti.
Come se non bastasse, il 2021 è iniziato con la crisi legata alla carenza di chip per il mercato dei semiconduttori, caratterizzato da un eccesso di domanda rispetto all’offerta, e sta proseguendo con la carenza della gomma naturale, materiale chiave usato nei pneumatici e nei componenti sotto il cofano.
L’impatto di un fungo, il Pastalotiopsis, sulle piantagioni dello Sri Lanka e del resto del Sud-Est dell’Asia ha colpito poi la capacità delle aree più produttive del mercato della gomma di fornire i settori che da essa sono maggiormente dipendenti, e l’industria dell’auto ha nuovamente sofferto duramente le incertezze del mercato. E i prezzi sono in volo, come dimostrato dall’incertezza finanziaria attorno al mercato della gomma: il 26 febbraio scorso, le quotazioni dei future hanno raggiunto il massimo degli ultimi quattro anni, arrivando a 2.600 dollari la tonnellata, per poi calare gradualmente, pur in un clima di forte volatilità.
In questo contesto, si riaprono le riflessioni sulla sostenibilità delle grandi catene del valore globali dopo la pandemia, in una fase segnata non solo da una grande incertezza ma anche da “cigni neri” quali il blocco del Canale di Suez che hanno mostrato la fragilità di un’eccessiva delocalizzazione. L’industria dell’auto ha a lungo beneficiato dello sdoganamento della globalizzazione, ma ora il Covid ha rafforzato le tesi di chi sosteneva l’utilità del reshoring nei Paesi di origine delle aziende multinazionali della quota più critica e strategica della catena del valore di ogni bene.
23/04/2021
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